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Il Teatro del Grand Guignol

Il 28 novembre 1868 nasce a Sestri Levante, Alfredo Sainati, fondatore della Drammatica Compagnia Italiana per il repertorio Grand Guignol, attiva dal 1908 al 1936.
La compagnia teatrale debutta al Teatro Pavone di Perugia, per affrontare successivamente il vero banco di prova, su piazze più importanti e difficili come Milano, Firenze, Torino e Napoli
Alfredo Sainati muore a Bertinoro, il 10 gennaio 1936
Il Grand Guignol è un genere teatrale nato a Parigi alla fine del XIX Secolo.
La sua peculiarità era quella di portare sul palco contenuti ritenuti solitamente proibiti, gravitanti attorno a tematiche noir intrise di paura e spregiudicatezza, dove la violenza e la crudeltà esercitavano un fascino quasi morboso e allo stesso tempo inconfessabile, verso il pubblico che assisteva agli spettacoli.
La drammaticità del Gran Guignol era una miscela di emozioni forti, dove orrore e comicità si mescolavano tra loro, trascendendo nel grottesco.
Protagonisti di questi “piaceri proibiti” erano assassini, mostri, degenerati, con rari ricorsi al sovrannaturale, il cui appeal era legato soprattutto all’unhappy ending delle storie stesse, mai scontato e spesso condito con un velo di erotismo che proiettava lo spettatore in una dimensione di ulteriore perversione.
La fama di questo teatro dell’orrore non fu circoscritta al contesto parigino, ma ben presto si allargò oltreoceano e nel resto d’Europa, anche se il successo, soprattutto in America, fu altalenante ed estemporaneo.
In Italia, invece, si distinse la Drammatica Compagnia Italiana per il repertorio Grand Guignol, fondata da Alfredo Sainati, che fino alla fine vide da una parte il favore del pubblico e dall’altra l’opposizione della critica, scettica non tanto riguardò il valore degli artisti, bensì verso il repertorio e i contenuti del genere.
Un parallelo Italia-Francia si delinea sulla figura delle attrici Paula Maxa, del teatro di Montmartre e l’italiana Bella Starace, entrambe dotate di un grande talento nel tradurre il terrore nella gestualità e nel lessico dei propri personaggi. A differenza della scuola francese, più orientata verso un approccio promozionale e pubblicitario del proprio talento, la scuola italiana si concentrava maggiormente nell’edulcorare le truculente vicende messe in scena.
Il Grand Guignol è stata una forma di teatro particolarmente soggetta alla severità della critica che lo trova moralmente deplorevole, fin dalle sue prime apparizioni, ma è negli anni del dopoguerra che si registrò una prima fase di declino e di perdita di interesse verso questa forma di teatro, complice il dramma della II Guerra Mondiale e tutto ciò che ne derivava sul piano socio-culturale, fino alla sua chiusura definitiva nel 1962.
Solo in tempi recenti, in Italia, il teatro del Grand Guignol ha trovato una nuova linfa per merito della compagnia teatrale Grand Guignol de Milan.
La Compagnia nasce come Convivio D’Arte, associazione dalla quale sono usciti format di vario genere (spettacoli, giochi, concerti eccetera), con l’intento di promuovere e riportare in auge spettacoli di cui si è persa memoria, partendo dal teatro Giallo degli anni ’40, per poi dedicarsi più specificatamente agli spettacoli del Grand Guignol.
Bibliografia
Carla Arduini, Teatro sinistro - Storia del Grand Guignol in Italia, Bulzoni Editore, 2011


La Paura e l'Immaginario Sociale nella Letteratura

Il Gothic Romance
La letteratura è stata una dei canali culturali a trattare tutti quegli elementi che analizzano e approfondiscono le angosce e le paure dell’uomo moderno, sia sul piano individuale, sia nel contesto collettivo, ripresi successivamente in altre forme d’arte, quali il teatro, la pittura, la scultura e il cinema.
La figura dell’uomo moderno è tesa a rimarcare lo stretto legame tra la cultura del gotico e del noir con il contesto in cui essa è nata e si è sviluppata a partire dalla seconda metà del XVIII Secolo.
Questo nuovo approccio si manifesta inizialmente nell’ambito letterario, dove l’immaginario sociale ricopre un ruolo fondamentale per la svolta del romanzo dell’epoca, nel passaggio dalla novella, incentrata su fatti reali (e realisitici) verso le nuove forme di romanzo noir.
Se in una fase iniziale l’ambientazione gotica si svolge secondo topoi classici come castelli, rovine o conventi, dove il fantastico e il sovrannaturale erano gli elementi cardine dell’intreccio narrativo, in quella che può essere considerata una sorta di evoluzione della letteratura gotica, gli elementi destabilizzanti della paura e del mistero spostano l’attenzione verso l’uomo comune, andando a pescare nelle sue inquietudini più inconsce.
I principali elementi cardine attorno ai quali si sviluppa questo genere letterario, sono la paura e il mistero, intesi come fattori destabilizzanti del quotidiano.
La paura riflette la reazione emotiva ad una situazione di pericolo o di minaccia. Tale reazione può avere un risvolto positivo nel momento in cui l’individuo si misura con il pericolo stesso, gestendo e controllando le conseguenze che ne derivano.
In altri casi la reazione alla paura può avere un risvolto negativo a seguito di uno shock emotivo dovuto ad una decontestualizzazione del pericolo, ponendo la minaccia che deriva su un livello inconscio e di conseguenza, creando una sempre maggiore alienazione dalla realtà che rende l’individuo vittima della paura stessa.
Nel gothic romance, a differenza de romanzo tradizionale, dove le storie sono poste sul piano di una realtà convenzionalmente accettata, si sviluppano mondi alternativi all’interno della sfera sovrannaturale, dove il magico, il mistero, la fenomenologia, l’inconscio pongono l’individuo innanzi alle proprie inquietudini esistenziali, possono essere elementi riconducibili ai cambiamenti socioculturali dell’epoca.
Horace Walpole - Il castello di Otranto, 1764
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Clara Reeve - Il vecchio barone inglese, 1778
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William Thomas Beckford - Vathek, 1785
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Matthew Gregory Lewis - Il monaco, 1796
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Johann Wolfgang von Goethe - Faust, 1808 - 1832
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Mary Shelley - Frankenstein, 1818
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John William Polidori - Il vampiro, 1819
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Charles Robert Maturin - Melmoth l'errante, 1820
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Edgar Allan Poe - Racconti del terrore, 1832-1849
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Joseph Sheridan Le Fanu - Carmilla, 1872
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Bram Stoker - Dracula, 1897
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Howard Phillips Lovecraft - Storie macabre, 1905-1920
Il Roman Du Crime
La risposta al Gothic Romance anglosassone, contestualizzato durante la prima Rivoluzione Industriale, è stata il Roman du Crime, nella Francia post-napoleonica. In questo nuovo filone letterario, il male non è più un elemento di disputa teologica, ma la sua natura spirituale diviene condizione di degenerazione morale, un fenomeno negativo di costume.
Con la seconda Rivoluzione Industriale in piena epoca vittoriana, la letteratura gotica così come era stata descritta fino a quel momento, vede accentuarsi il rapporto conflittuale uomo-scienza, già trattato anni addietro, nell’opera di Mary Shelley, Frankeinstein o il Prometeo moderno, del 1818.
Il tema dei limiti della scienza, oltre i quali non è ritenuto opportuno spingersi soprattutto per questioni di natura etica e morale, saranno poi ripresi in chiave fantascientifica nel XX Secolo, introducendo un nuovo elemento destabilizzante per il singolo individuo e la collettività: la distopia.

Bibliografia
Romolo Runcini, La paura e l'immaginario sociale nella letteratura - 1. Il Gothic Romance, Liguori Editore, 1995
Romolo Runcini, La paura e l'immaginario sociale nella letteratura - 2. Il Roman du Crime, Liguori Editore, 2002
Romolo Runcini, La paura e l'immaginario sociale nella letteratura - 3. Il Romanzo Industriale, Liguori Editore, 2012


Le suggestioni del cinema espressionista

L’espressionismo nacque nel 1905 in Germania, più precisamente a Dresda. Fu un movimento artistico nato in risposta alla rigidità della società ad esso contemporanea che grazie all’uso di linee aggressive, alla deformazione delle figure e all’enfatizzazione delle espressioni e delle relative emozioni, ebbe un forte impatto su diverse forme d’arte, dalla pittura al teatro, al cinema e alla letteratura.
Per comprendere meglio come l’espressionismo abbia trovato terreno fertile e si sia affermato come vero e proprio movimento artistico, è opportuno analizzare il contesto culturale di quegli anni.
La fine della Prima Guerra Mondiale segnò l’inizio di una stagione singolare, in cui lo spirito della società tedesca fu particolarmente inquieto, a causa di una crisi sia economica, sia di valori.
Quegli stessi valori che avevano caratterizzato la Germania durante il XIX secolo. L’ecatombe di giovani precocemente falciati dalla guerra sembrava nutrire la truce nostalgia dei sopravvissuti, tanto che l’attrazione verso ciò che è oscuro e indeterminato, tipica dei popoli germanici, sfociò nella dottrina, dai toni per certi versi apocalittici, dell’espressionismo.
Se nella letteratura, nella pittura o nel teatro l’espressionismo ha espresso tutta la sua complessità, è nel cinema che questo movimento artistico ha trovato la sua massima intensità.
Ecco, quindi, come la società che cambia diventa l’elemento chiave per esprimere la solitudine dell'uomo, l'alienazione dell'individuo e la sua immoralità.
La tendenza ai contrasti violenti che la letteratura espressionista ha calato in formule ben delineate, come la nostalgia del chiaroscuro e delle ombre, ha trovato nell’arte cinematografica un modo di espressione privilegiato. Le visioni nutrite da uno stato d’animo torbido e inquieto non potevano venire evocate in modo più adeguato e al tempo stesso concreto e irreale. Alla base dell’espressionismo tedesco, la magia delle luci assume un ruolo fondamentale, la penombra diviene elemento straniante e di disturbo. La luce e l’oscurità, nel cinema, assumono il ruolo del ritmo e della cadenza nella musica.
In un cotesto di severa crisi economica quale era quello delle Germania del primo dopoguerra, le produzioni delle pellicole cinematografiche spesso dovevano fare i conti con fondi disponibili sempre più esigui. Di conseguenza, i giochi di luce tra chiaro e scuro assunsero un ruolo importante, sostituendosi alla varietà delle architetture scenografiche, trasformando la scenografia stessa, spesso unica e fissa per più scene di una stessa opera.
Nel cinema espressionista, uno dei metodi più utilizzati per l’impiego delle luci consiste nel sottolineare o mettere in risalto, spesso con eccesso, il rilievo e i contorni di un oggetto o i particolari di una scenografia, accentuandone, deformandone e trasformandone i volumi, con un intreccio di linee abbaglianti e insolite.
Al mondo delle ombre e del chiaroscuro tipico del cinema espressionista si accosta in maniera quasi ossessiva il gioco di specchi. Lo specchio diviene un altro strumento utilizzato per esaltare l’inquietudine dell’individuo, la cui immagine riflessa ne rivela la vera natura. Nei film tedeschi finestre, vetrine, vetrate, pozzanghere sono altrettanti specchi che catturano figure e oggetti sulle loro superfici opalescenti.
Secondo un approccio metafisico, la vita non è più che una sorta di specchio concavo che proietta personaggi inconsistenti e fluttuanti simili alle immagini di una lanterna magica, nitidi quando sono piccoli, dileguanti man mano che si ingrandiscono. Dal gioco di specchi si producono quindi le ombre che con il loro potere altamente suggestivo, conciliano il loro lato enigmatico con il concetto di simbolo. Ecco che nei film espressionisti l’ombra diviene una figura che in qualche modo rappresenta il destino. Nel Caligari, il sonnambulo Cesare, che protende le sue mani verso la sua vittima, proietta la sua ombra gigantesca sul muro, così come Nosferatu chinato sul letto del viandante o mentre sale le scale. Nel film Lo studente di Praga, sull’alta parete di una terrazza, si profila l’ombra smisurata di Scapinelli, incarnazione del diavolo. In M – Il mostro di Düsseldorf, sul manifesto che promette ricompensa a chi scoprirà l’inafferrabile assassino, si delinea la sua ombra che sovrasta minacciosa la bambina, ignara del sinistro monito.
Un altro elemento caratteristico del cinema espressionista è l’architettura dei paesaggi, realizzati in studio con gesso e cartapesta, in maniera tale da arrivare ad un’astrazione assoluta, a tratti claustrofobica, tesa ad alimentare il senso di inquietudine. Secondo questa visione espressionista, occorre che la natura sia stilizzata. In un film, il destino umano non sempre si adatta a un quadro naturale, mentre per dare un senso al destino di un individuo bisogna ricorrere a immagini impregnate di atmosfera.
Così come le illuminazioni che danno rilievo a personaggi e oggetti, il paesaggio diviene una componente fondamentale per esprime quel senso di drammaturgia insito nello stesso movimento espressionista. Secondo questa chiave di lettura, ci sono vincoli intimi e profondi tra i paesaggi e gli esseri umani, tanto che il paesaggio dispone di tutti gli elementi per sottolineare e accrescere la tensione di una scena.
Come accennato precedentemente, il cinema espressionista tedesco fa parte di un movimento culturale figlio del suo tempo, nato sulla base di una società che stava vivendo drammaticamente i cambiamenti derivati dalla Prima Guerra Mondiale.
I segni premonitori della decadenza del cinema tedesco si avvertirono già dagli ultimi anni del film muto e si consolidano con l’avvento del sonoro, complice anche l’emigrazione di alcuni importanti registi come Murnau, Dupont e Leni verso gli studi americani di Hollywood.
Negli ultimi anni del cinema muto, l’immagine sempre trattata secondo i canoni del chiaroscuro riesce ancora ad ingannare, ma l’avvento del sonoro mette crudelmente a nudo la mediocrità della produzione corrente, poiché la parola tradisce il mistero del linguaggio del corpo.
ROBERT WIENE
Al regista tedesco Robert Wiene si deve il film Das Cabinet des Dr. Caligari, un classico del cinema muto, pietra miliare dell’espressionismo tedesco, nonché precursore del thriller psicologico, realizzato nel 1920.
Quest’opera delineava nuove ambizioni estetiche, nuovi rapporti tra film e arti grafiche, tra attori e scenografia, tra immagine e narrazione. I legami che instaurò tra un cinema ancora giovane e i movimenti artistici più sperimentali dell’epoca sorpresero e attirarono un pubblico di intellettuali che fino ad allora aveva degnato di poche attenzioni un settore dello spettacolo considerato ancora acerbo.
Nel 1920, l’espressionismo già non era più una pericolosa avanguardia, ma un fenomeno artistico alla moda, tanto che le opere d’arte e gli allestimenti teatrali espressionisti finivano ormai sulle riviste illustrate.
La critica del tempo definì l’espressionismo una importante estensione della nuova arte a un nuovo mezzo espressivo, un abito con cui vestire l’opera, uno stile in cui le scenografie realizzano una perfetta trasformazione di oggetti materiali in decorazioni emotive.
L’opera di Wiene, così come più in generale i film del cinema espressionista tedesco, è stata segregata nella categoria dei “film d’arte” come qualcosa di separato dalla produzione commerciale. Collocando Il gabinetto del Dottor Caligari nella giusta prospettiva storica si evidenzia, invece, come il film fu realizzato, strategicamente, in sintonia con l’industria cinematografica del suo tempo.
All’epoca, nei film espressionisti andavano di moda le atmosfere misteriose e destabilizzanti tipiche del teatro del Grand Guignol e il Gabinetto del Dottor Caligari era perfettamente in sintonia con questa tendenza.
Il produttore del film, Rudolf Meinert, diede istruzione di realizzare le scenografie nella maniera più eccentrica possibile perché sicuro che ciò avrebbe contribuito al successo del film, convito che quella che poteva apparire una bizzarria visiva avrebbe catturato il favore del pubblico, mentre in caso contrario, si sarebbe potuto spiegare che quelle immagini deformi rappresentavano la fantasia di una mente malata e perversa.
Anche se nessun altro film adottò in maniera così pervasiva i caratteri formali dello stile espressionista, l’essenza dell’espressionismo (l’uso delle scenografie distorte, dell’illuminazione e del chiaroscuro per riflettere ed esprimere la psicologia dei personaggi) perdurò nel cinema tedesco degli anni Venti.
Un effetto immediato del Caligari sulle opere cinematografiche contemporanee fu che le produzioni si rinchiusero nei teatri di posa abbandonando, tranne rarissimi casi, le riprese in esterni. Per diversi anni, la maggior parte dei film tedeschi fu girata totalmente in studio. Ad esempio, l’intera foresta de I Nibelunghi di Fritz Lang fu costruita negli studi di Babelsberg. Di conseguenza, fu molto valorizzata la figura dello scenografo che spesso sul set veniva definito architetto.
Se le scenografie hanno reso Il gabinetto del Dottor Caligari un punto di riferimento per i canoni del cinema espressionista tedesco, non da meno lo è stata la sceneggiatura. La critica ha sempre attribuito un valore antistituzionale al progetto degli autori, facendo riferimento alle vicende ricondotte all’interno della protetta interiorità borghese, richiamandosi alla villa e all’ambiente elegante in cui immersi i protagonisti.
Una più forte connotazione in tal senso si evidenzia dalla decisione di introdurre il ribaltamento finale, che attribuisce tutto il racconto ai vaneggiamenti di un folle, anziché ridurre e normalizzare il valore perturbante e destabilizzante del racconto, finendo per accentuarlo creando un rafforzamento dell’ambiguità della narrazione.
Nel corso del tempo, Il Gabinetto del Dottor Caligari è stato oggetto di numerose interpretazione da parte della critica, non ultima una lettura psicologica della sua sceneggiatura e del profilo dei suoi personaggi, contestualizzati nella società tedesca del primo dopoguerra, ma al di là della critica di settore, il film continua ancora oggi ad esercitare il suo fascino grazie alle figure emblematiche create dai due interpreti principali, il Caligari di Werner Krauss con le sue smorfie grottesche e il Cesare di Conrad Veidt, spettrale sonnambulo vestito di nero e dallo sguardo ipnotico. Per quanto nate da circostanze casuali, queste figure hanno lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema.
FRIEDRICH WILHELM PLUMPE [MURNAU]
Friedrich Wilhelm Plumpe (Bielefeld, 28 dicembre 1888 – Santa Barbara, 11 marzo 1931) è stato uno dei massimi esponenti del cinema espressionista tedesco.
Da parte di padre, la famiglia Plumpe era arrivata in Germania dalla Svezia, attorno all’anno Mille, rimase per un periodo in Pomerania e a seguito dei conflitti della Guerra dei Trent’Anni, si trasferì in Vestfalia.
Durante gli anni della sua gioventù intraprese una collaborazione con il regista teatrale Max Reinhardt che lo portò ad abbandonare gli studi per intraprendere la carriera di attore e regista. Fu questo il periodo in cui scelse lo pseudonimo Murnau (probabilmente in riferimento alla cittadina bavarese di Murnau Am Staffelsee), nome d’arte che lo accompagnò fino alla sua morte avvenute nel 1931, in seguito ad un incidente stradale.
Nel corso del tempo, alcune sceneggiature del regista tedesco si sono salvata, ma la maggior parte è andata perdura durante la distruzione di Berlino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quelle sopravvissute, chi più chi meno, presentano note al margine trascritte personalmente dal regista, il quale non lasciava nulla al caso. Dopo ogni quadro, sono ancora leggibili indicazioni dettagliate sui costumi degli attori ed eventuali oggetti in scena. Spesso Murnau indicava anche in quale momento del giorno o della notte girare una scena e, talvolta, il teatro in cui effettuare le riprese in esterno.
Si tratta, quindi, di scenografie nella loro forma definitiva.
Si tratta, quindi, di scenografie nella loro forma definitiva.
Tra i migliori soggetti realizzati durante gli anni Venti che hanno visto alla regia Murnau, La testa di Giano, la cui sceneggiatura è stata scritta da Janowitz nel 1920, rappresenta il film che più risente dell’influenza espressionista di Carl Mayer, altro sceneggiatore austriaco caratteristico per una stilizzazione molto marcata, che diventerà iconica nel Caligari di Robert Wiene.
Nel film, adattamento de Lo strano caso del dottor Jekyll e mr. Hide di Stevenson, un giovane dottor Jekyll cade preda del fascino esercitato da una scultura, un busto acquistato da un antiquario. La forma bifronte raffigura il volto di un dio su un lato e la smorfia di un demone sul lato opposto che per il giovane dottore rappresentano la duplicità della natura umana.
Nel 1921 non esisteva ancora il cinema sonoro e negli atelier quasi sempre si girava e si lavorava contemporaneamente alle scenografie. A proposito di scenografie, è interessante il contributo di Robert Herlth nel raccontare la sua esperienza lavorativa con Murnau. Questi era interessato unicamente alle proporzioni, alle luci, alle ombre e alla realizzazione dell’insieme, si preoccupava esclusivamente dell’atmosfera e dell’effetto stilistico.
Nel suo film del 1926,
Faust, si arrivò a costruire lo spazio attorno all’interprete, disegnando prima l’evento scenico e solo successivamente ci si preoccupava dello spazio che in realtà prendeva forma da sé. In questo modo, lo studio non era più concepito come uno spazio chiuso, ma ripreso come sequenza di quattro quadri.
In
Tartufo, la sala era costituita da un’unica parete, la profondità veniva creata dai personaggi o al limite scompariva, nel caso in cui si voleva creare un effetto di rilievo. La profondità spaziale, che all’epoca era considerata dagli esperti una componente insostituibile, non era più fondamentale in quanto la trama si sviluppava attraverso un più marcato gioco di prospettive.
Nel 1922 vide luce (quasi un ossimoro, riferendosi ad un film su un vampiro) il suo film più classico:
Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, tradotto come Nosferatu, il vampiro.
Esistono due copie molti diverse di questo film, una tedesca e una francese. La prima, con i nomi diversi dei personaggi, conserva il bel layout delle illustrazioni originali di Albin Grau, scenografo del film e autore delle immagini pubblicate nel programma di sala. Nella copia francese, invece, sono presenti scene di grande efficacia come, ad esempio, le immagini delle bare che si ammassano con grande rapidità nella corte del castello alla partenza del vampiro; la vuota amaca del marinaio morto che oscilla in modo spettrale come quando era ancora vivo.
La copia tedesca, inoltre, contiene due lunghe sequenze che stupiscono per essere stilisticamente estranee al film, come scene di balli o pranzi di contadini in uno stile pseudo-folcloristico, caratteristico dei più banali film di intrattenimento. Si tratta di scene in chi non compare nessun personaggio del film e ciò induce a pensare che non siano state inserite nella sceneggiatura.
L’enigma di due copie così diverse è stato svelato da un documento della censura del 1930 il quale confermerebbe che la versione tedesca altro non è che la rielaborazione del regista tedesco Waldemar Roger, uscito con il titolo Die zwölfte stunde – Eine nacht des grauens [La dodicesima ora – Una notte di orrore]. Una parte del girato originale è stato poi rimontato da Waldermar Roger e utilizzato per il finale, mentre le scene dei contadini e della messa funebre sono state girate da lui ex novo.
Come altri registi a lui contemporanei, anche Murnau si trasferì negli Stati Uniti dove realizzò i suoi ultimi film, prima di morire nel 1931, a seguito di un incidente stradale.
FRITZ LANG
Nato a Vienna il 5 dicembre 1890, Fritz Lang è uno dei più rappresentativi registi e sceneggiatori del ‘900, attraversando il cinema degli anni 20, fino a produrre 30 film sonori, tra l’Europa e gli Stati Uniti.
Insieme a Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang emerge tra le figure più di spicco al margine del movimento espressionista, nato dalla scuola tedesca degli anni ’20.
Abbiamo poche notizie dui primi film diretti da Lang. Nell primo,
Mezzosangue, del 1919, vi si ritrova uno dei motivi preferiti di Lang in età giovanile: una femme fatale che trascina gli uomini alla rovina.
Nel successivo
Destino, del 1921, Lang esprime il concetto di morte secondo i canoni classici del romanticismo tedesco, altro tratto anche tipicamente viennese.
I suoi personaggi agiscono con molta semplicità, ognuno secondo la propria natura. L’elemento che esercita l’impatto più forte nel film è proprio l’azione che fa da cornice, la storia della giovane coppia che il viaggiatore, la Morte, stanca di strappare gli esseri umani alla vita, separa.
Spesso per Lang il dettaglio ha un forte valore simbolico, come ad esempio nella scena in cui la Morte entra nella verna, i fiori appassiscono, il gatto inarca la schiena e il pomo del bastone del Viaggiatore raffigura un teschio.
Tutti gli elementi d’atmosfera sono là, dal senso del soprannaturale al passaggio all’irreale, elementi ai quali Lang ha saputo contrapporre il suo senso di humor attraverso una serie di dettagli comici le cui sfumature variegate danno vita e risalto ad una diversa dimensione quotidiana. In tal senso, Lang riteneva che, dopo una tensione drammatica, al pubblico servisse un momento più distensivo.
Dopo la realizzazione di altri due film tra i più importanti del cinema espressionista, quali
Il Dottor Mabuse e I Nibelunghi, girati tra il 1922 e il 1924, negli anni successivi Lang si mise a lavoro per realizzare il suo film-manifesto: Metropolis, del 1927. Lang si era recato negli Stati Uniti nel 1925, per studiare i metodi di produzione e fu la sua prima visione dei grattaceli di Manhattan, quando la nave con cui viaggiava entrò nel porto di notte, a dare origine a Metropolis.
Nel film, l’impressione che New York aveva fatto a Lang si distacca da ogni contesto reale, è la città del futuro che slancia nel cielo la sua immensità. La luce e la nebbia si mescolano creando una luminosità radiosa, le torri si innalzano con la forza dell’architettura gotica.
In questo film muto il suono è stato visualizzato con una tale intensità che si ha l’impressione di sentire il martellamento delle macchine e le sirene della fabbrica. Se i Nibelunghi poteva essere considerato un dramma del passato, Metropolis è sicuramente un possibile dramma ambientato in un contesto futuristico. Concentrando l’attenzione sull’alienazione della società, ecco che nella centrale delle macchine gli operai, rappresentati come schiavi vestiti di nero, a testa bassa, creature anonime che avanzano nei corridoi con un passo uguale e ritmato, si trasformano in lancette di enormi quadranti, eseguendo un lavoro misterioso per far andare i giganteschi ingranaggi nel cuore della città.
Per la realizzazione dei suoi film, Lang parte dal presupposto che le forme visivi-dinamiche proprie del cinema hanno diversi punti di forza. Innanzitutto, producono sensazioni ed emozioni che coinvolgono lo spettatore, in secondo luogo creano immagini, come forme coordinate tra loro, diventando simboli capaci di creare nove suggestioni.
Nei film più iconici di Fritz Lang, le dinamiche dello sguardo, sulla scia della scuola espressionista tedesca, acquisiscono una rilevanza particolare. Ecco che nelle inquadrature, con un abile gioco di primi piani della macchina da presa, gli occhi dei protagonisti vengono isolati dal contesto della scena, a volte resi più grandi, altre volte astratti dallo stesso volto, creando un effetto quasi ipnotico, trascinando e catturando lo spettatore in una fascinazione seduttiva, in una spirale di pathos.
Nella prima parte de Il Dottor Mabuse, lo sguardo ipnotico del protagonista rivolto alla vittima prescelta invade con forza particolare lo schermo, in maniera tale da non connotare soltanto il carattere del personaggio, ma contribuisce a creare uno stato d’animo di tensione, inquietudine e paura definendo, di conseguenza, il tono stesso del film.
Tale situazione rivive in un altro film-culto di Fritz Lang, Metropolis. In questo caso lo sguardo diabolico della versione artificiale della protagonista, la Maria-Robot, è posto in risalto dal pesante trucco nero dell’attrice che rende il volto di Brigitte Helm una maschera inquietante e perversa. In questo caso, l’accostamento di un trucco più pesante e no più leggero rappresenta una sorta di simbolica raffigurazione della duplicità della figura della protagonista.
La tecnica dello sguardo verso la macchina da presa, con il gioco dei primi piani è un rilevante elemento di qualificazione del cinema di Lang, un tratto stilistico predominante anche in altri film del regista austrico, come Destino, del 1921, e I Nibelunghi, del 1924.
Un approccio, quello di Lang, teso non tanto ad intrattenere il pubblico, quanto ad affascinarlo tramite una sequenza di immagini e scene che creano sensazioni ed emozioni forti nello spettatore. Con l’avvento del sonoro, Lang si adopera per realizzare nuove forme di stilizzazione che diano un senso di contemporaneità tra il visibile (le immagini) e l’udibile (il sonoro). La sua operazione è duplice e si articola in una serie di specifiche interazioni tra il simbolico e il sonoro, che è qualcosa di profondamente diverso dal quadro visivo e potenzialmente astratto e al tempo stesso astraente del cinema muto.
Per il regista, lo stile nel nuovo cinema sonoro diviene il complesso delle differenziazioni e la sua ricomposizione configurativa, di conseguenza la produzione della sensazione e la ricerca dell’intensità diventano elementi fondamentali. Ecco così che l’intensità da un lato si lega alla forza e alla novità delle nuove strutture narrative, dall’altro si lega alla costruzione della forma visivo-dinamica. Nel primo caso il lavoro del regista è finalizzato a coinvolgere e guidare più direttamente lo spettatore, mentre nel secondo caso, tende a valorizzare il carattere più profondo dell’intensità e la sua dimensione fluida e formale.
In Germania, l’attività di Fritz Lang proseguì fino all’avvento del nazismo al potere, nel 1933, quando il regista decise di emigrare prima verso la Francia e successivamente verso gli Stati Uniti, fino al 1956, quando rientrò in Germania.

I diversi volti dell'esoterismo

Quello dell’esoterismo è un concetto molto complesso e articolato in quanto nel corso del tempo è stato collegato ad una enorme quantità di figure, di nozioni, di idee e materiali di proveniente molto diversa.
Nella concezione più comune, il termine esoterico definisce qualcosa di riservato, misterioso e, soprattutto, non conosciuto a coloro che non rientrano nella ristretta cerchia degli adepti.
Nel mondo classico, gli insegnamenti esoterici erano riservati ad una stretta cerchia di discepoli e impartito sotto forme segrete e arcane. Per estensione, quindi, tutto ciò che è riconducibile al mondo dell’esoterismo proviene da dottrine religiose e misteriche, come la teosofia e lo gnosticismo, facendo riferimento a concezioni secondo le quali la conoscenza della verità viene rivelata attraverso diversi gradi di iniziazione.
Quando si parla di iniziazione, il pensiero corre a dimensioni rituali che abbracciano ambiti storico-geografici vasti e diversificati, a seconda anche del contesto culturale locale.
In termini antropologici si possono definire tre diversi tipi di precessi iniziatici:
  • • iniziazione sacrale, determina l’ingresso di un giovane individuo nella comunità degli adulti;
  • • iniziazione religiosa, in relazione all’accesso di un singolo individuo in società segrete o gruppi esoterici;
  • • iniziazione sciamanica, il passaggio dalla condizione normale verso poteri che possono sfociare nella sfera del sovrannaturale
Alcune forme di esoterismo, connesse sincreticamente alle religioni, presentano importanti riferimenti a simboli e tradizioni dell’antichità, fungendo da fondamenta per le più recenti dottrine basate su elementi storicizzati, volti ad attribuire la propria sostanza e le proprie radici alle esperienze esoteriche moderne. Sulle antiche tradizioni, quindi, poggia il pensiero esoterico i cui valori sono radicati nella sfera del misticismo, ma sviluppandosi autonomamente, come una evoluzione della propria spiritualità.

Il rapporto con la natura
Secondo il pensiero filosofico, in contrapposizione a quello scientifico, elementi che richiamano al mondo esoterico si possono trovare nella natura, così come nelle più diverse discipline artistiche come letteratura, pittura, musica e teatro.
Per comprendere la notevole valenza esoterica della natura nelle antiche culture, in particolare in alcune delle sue manifestazioni e caratteristiche, basta pensare a come alcuni fenomeni naturali come i cicli stagionali, e altre caratteristiche dell’ambiente, fin dalle epoche più remote hanno alimentato immagini inconsce assimilate a segni e linguaggi degli dèi, portatrici di messaggi comprensibili solo a coloro che erano in grado di penetrarne i segreti. Da questi elementi hanno attinto non solo le mitologie o le religioni, ma tutto il mondo della cultura più in generale, affidandosi alle suggestioni che, ad esempio, una fonte, una grotta o una foresta possono generare.
In particolare, gli elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco) non corrispondono solo a manifestazioni tangibili ed empiricamente visibili nella realtà, assumo significati simbolici destinati ad avvalorare il linguaggio del sacro, esprimendo il rapporto tra umano e sovrannaturale.
In molte religioni antiche l’
acqua è uno egli elementi più importanti dello svolgimento rituale, con la sua proprietà rigeneratrice e purificatrice, rinvenibile in tradizioni anche molto diverse sul piano culturale e geografico.
L’
aria, da un punto di vista simbolico, è associata al respiro, quindi, al soffio vitale che anima tutte le creature, tanto che molte religioni considerano l’aria il principio della vita.
La
terra è il corpo della Grande Madre. Tutti gli esseri nascono da lei a lei ritornano. In maniera spontanea crea minerali, metalli e acque sorgive e altri prodotti naturali, ma lavorata dall’aratro dell’uomo produce i messi per il sostentamento degli uomini. Nel complesso rapporto che lega l’uomo alla terra, si inserisce la pietra, quale elemento materiale eterno, segno concreto in grado di testimoniare l’immortalità della materia, antropologicamente espressione simbolica del rapporto tra il terreno e la sfera del divino.
Il
fuoco, elemento che ha sempre ricoperto un posto di rilievo nell’immaginario collettivo. Il suo patrimonio simbolico è direttamente collegato alla capacità esclusiva dell’uomo nel controllarlo, fattore che ha dal punto di vista antropologico ha segnato un salto di qualità fondamentale nel meccanismo evolutivo. Il suo utilizzo nelle attività agricole, ad esempio, ha permesso all’uomo di passare da una vita nomade, basata su caccia e pesca a insediamenti stanziali, con allevamenti e coltivazioni.
Durante l’antichità, il fuoco è stato protagonista di un’altra grande rivoluzione culturale, venendo utilizzato per plasmare le materie prime per farle poi solidificare nelle forme volute. In tal senso, la dimensione esoterica di questo elemento si esprime attraverso le figure più antiche del fabbro e dello sciamano, fino ad arrivare a quella più evoluta dell’alchimista, in epoca più moderna.

I linguaggi della letteratura
Fin dall’antichità simboli di carattere ermetico hanno lasciato traccia nelle varie discipline culturali. In ambito letterario, ad esempio, la funzione della parola ha ricoperto un ruolo molto particolare, in quanto essa semplifica e trasforma il mondo che ci circonda, ma allo stesso tempo si presenta come entità complessa ed ambigua: basti pensare alle parole o ai lemmi considerati “magici” nelle culture più antiche, in relazione alle loro caratteristiche onomatopeiche avvertite da chi ascolta, divenendo lingua sconosciuta o quantomeno interpretabile solo da coloro che ne avevano la capacità.
Un caso particolare, in tal senso, è quello di D’Annunzio e la sua affermazione “la trasmutazione delle parole è un’opera di alchimia”. Lo scrittore ha dimostrato in più occasioni di voler attingere al simbolismo ermetico, come nei versi del romanzo Il piacere, in cui termini come sfinge, chimera, ermafrodito e androgino richiamano figure presenti nell’esoterismo e nell’alchimia.
Un altro esempio di “linguaggio alchemico” è riscontrabile nel romanzo Le avventure di Pinocchio, scritto da Carlo Lorenzi (alias Collodi) tra il 1881 e il 1883. Dal fatato mondo dei libri per l’infanzia, Pinocchio ha raggiunto i livelli più significativi della narrativa per adulti. Qui, il tema portante che domina su ogni rimando e metafora celati nel significante della storia è l’iniziazione, quale metamorfosi scandita da una serie di ostacoli che ne testimoniano la validità. La trasformazione, quasi alchemica, vede la materia inerte acquisire una vita proprio e indipendente.
Ecco che il burattino di legno evoca l’atavico mito di Prometeo, se non addirittura alla creatura di
Frankenstein, nel momento in cui coglie interamente il peso della sua diversità e cerca di affrancarsene. Il suo viaggio verso l’acquisizione di un’umanità non più impostagli dall’esterno passa attraverso lo stato animale affrontando un percorso di trasmutazione in cui la materia informe prendete vita, mentre gli aspetti legati alla morale o alla spiritualità dell’essere “umano” sembrano infusi da una entità superiore. Alla fine della storia la mutazione si completa nell’acqua (elemento dalle proprietà purificatrici) in cui Pinocchio raggiunge l’ambita condizione umana e lo stesso Geppetto, suo padre e creatore, subisce un processo di rigenerazione tornando ad essere, da padre anziano e malato, il falegname di una volta.
Rimanendo nei perimetri della letteratura si possono citare tanti altri casi in cui il linguaggio della scrittura presenta ricorrenti elementi caratteristici dell’ermetismo e dell’esoterismo. Sicuramente tra le opere più importanti si trova la Divina Commedia di Dante, ma anche Alice nel paese delle meraviglie Lewis Carroll, fino alle opere di Jean Nicholas Arthur Rimbaud, la cui creatività si è spesso materializzata nelle trasgressioni del suo animo tormentato o il ruolo esoterico dell’arte che Oscar Wilde ha descritto ne Il ritratto di Dorian Gray o il simbolismo di cui sono intrisi gli scritti di Franz Kafka.

Segni, simboli nell’arte
Il legame tra l’arte e la dimensione esoterica ha un’origine molto antica, tanto che potrebbe essere rinvenibile già nelle pitture rupestri della preistoria. Nel corso del tempo, questo legame non ha mai perduto la propria consistenza, ma ha trovato la sua maggiore affermazione durante il Rinascimento.
Nelle tavole di Giorgione o di Bosch, così come negli affreschi della Cappella Sistina, si può cogliere tutta una serie di rimandi esoterici, suggerendo un approccio che induce a considerare l’arte in generale come un “ragionamento per immagini”.
Questo tipo di lettura si basa su due presupposti di partenza: innanzitutto la connessione tra l’artista e la sfera del mistero e sovrannaturale; in secondo luogo, si deve far riferimento ad una cultura esoterica nell’approccio alla tradizione pittorica. Come per la letteratura, anche per l’arte si possono elencare numerosi artisti che hanno seguito un approccio basato sull’impiego di simboli riconducibili alla sfera dell’esoterismo e di ciò che gli gravita attorno.
Salvator Rosa (1615-1673), ad esempio, è noto per le sue tele sulla stregoneria, una delle più suggestive raffigurazioni secondo l’interpretazione culturale del XVII secolo. Si tratta di rappresentazioni su toni oscuri, forti e spesso profondamente scenografiche, nelle quali si possono rintracciare simboli presenti anche nei suoi dipinti paesaggistici in cui la matrice naturalistica si amalgama con l’elaborazione del fantastico.
Un altro esempio, per il quale gli studiosi hanno colto dei collegamenti tra arte ed esoterismo è rappresentato dagli universi impossibili di
Maurits Cornelis Escher, in particolare nella sua opera Relatività, del 1953. L’esoterismo dell’artista olandese costituisce uno dei più affascinanti modelli astratto-geometrici che si legano a una dimensione scandita da regolari strutture formali creando illusioni e anomalie prospettiche con un proprio significato non comprensibile da un primo impatto. Per certi aspetti Escher è paragonabile agli autori dei complessi e inestricabili meandri delle miniature medievali che si possono ritrovare nelle decorazioni dell’architettura romanico-gotica.
Tra gli altri numerosi casi in cui l’arte è strettamente connessa a simboli esoterici, sono sicuramente da evidenziare inoltre, la Melancolia I di Albrecht Dürer (1471-1528) e il suo legame con il concetto di alchimia, qui espresso dallo stesso numero romano I, come ad indicare il primo stadio del percorso che un adepto deve intraprendere per giungere ad un più elevato stato di conoscenza; la raffigurazione di
Ermete Trismegisto in uno degli intarsi marmorei nel pavimento del Duomo di Siena, figura che incarna il triplice ruolo di sacerdote, filosofo e legislatore; la tavola tratta da Le nozze alchemiche di Christian Rosenkreutz e, infine, il Ritratto del conte Galeazzo Sanvitale, in cui il nobiluomo regge una moneta nella mano destra, nella quale appare il numero 72, particolare sul cui valore simbolico sono state avanzate numerose ipotesi.

Allegorie e simboli nelle discipline della musica e del teatro
Musica e teatro sono discipline in cui il linguaggio esoterico trova numerose opportunità per esprimersi, spesso avvalendosi delle molteplici sfaccettature che ne costituiscono la struttura formale ed estetica.
Nel caso dell’opera lirica, ad esempio, teatro e musica sono uniti in un’unica struttura poetica, in cui gli aspetti estetici si amalgamano indissolubilmente al simbolo, grazie proprio all’articolato simbolismo che contrassegna la lirica. La musica classica, inoltre, ci offre numerosi casi di connessioni con la sfera dell’esoterismo.
Uno dei più emblematici riguarda le sinfonie di Beethoven che suggeriscono uno spunto particolare per il quale possono essere assimilate an un vero e proprio percorso iniziatico in cui prende forma un perfetto equilibrio tra anima e corpo, tra sacro e profano.
Per quanto concerne la musica, un altro esempio in cui il linguaggio esoterico ha modo di porre in rilievo le sue prerogative si trova nella relazione tra musica e massoneria.
Le prime opere musicali in cui si possono riscontrare frasi o versi massonici risalgono al 1723 e si tratta principalmente di testi adattati ad arie o motivi già noti, come nel caso di
Zoroastro di J.P. Rameau (1683-1764).
Un caso ancora più significativo è
Il flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), realizzato proprio nell’ultimo anno di vita del compositore austriaco.
Il testo (denso di simbolismo) musicato da Mozart è il libretto dell’attore teatrale e librettista tedesco Emanuel Schikaneder. Si tratta di un’opera in cui sono evidenti le influenze di quella tradizione legata alla discendenza egizia, che fu molto cara alla cerchia massonica.
L’opera presenta due chiavi di lettura: una più superficiale, sostanzialmente una fiaba rivolta agli spettatori poco inclini a eventuali riflessioni sulla simbologia; l’altra rivolta a spettatori maggiormente attenti alle valenze ermetiche dei contenuti esoterici, come il percorso iniziatico dei personaggi di Tamino e Papageno.
In ambito teatrale, invece, il caso più significativo di correlazioni con la sfera dell’esoterismo, è rappresentato dalla figura del
Dottor Faust. La storia di questo personaggio, secondo alcuni studiosi, viene fatta risalire ad un testo tedesco del 1587, mentre secondo altre interpretazioni, l’opera prima fa riferimento ad una traduzione popolare inglese del 1592. La versione più accreditata attesta l’opera al drammaturgo inglese Christopher Marlowe (1564-1593).
Nel corso dei secoli l’opera fu riadatta anche in altri ambiti, come il dramma lirico in cinque atti di Charles Gounod, la cui prima rappresentazione risale al 1859, ma soprattutto la trasposizione più celebre resta quella del libro di Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), versione che ha assegnato la caratterizzazione definitiva al personaggio del Dottor Faust, tanto da ispirarne anche una versione cinematografica nel 1926, da parte di Friedrich Wilhelm Murnau, nel quadro del cinema espressionista tedesco del XX secolo.

La licantropia tra folklore e scienza medica

Il lupo è un animale assai diffuso nelle varie regioni dell’Eurasia e appartiene alla più ampia famiglia dei canidi e fin dai tempi più remoti, la sua figura ha assunto una connotazione particolare, soprattutto nel rapporto uomo-natura.
Se già in epoca romana, il bosco era considerato uno spazio economico importante, nonostante fosse al di fuori delle aree di coltivazione, in età medievale, il bosco entrò a pieno titolo all’interno del sistema produttivo quotidiano. La selva assunse un ruolo fondamentale per la sussistenza, in quanto luogo di raccolta, di pascolo, di caccia e spazio per la riserva del legname.
L’antropizzazione degli spazi naturali (e selvaggi) fu un fattore decisivo nel rapporto tra l’uomo e la fauna di quei luoghi. Il lupo fu l’animale che ne fece maggiormente le spese a causa del suo istinto predatorio, divenendo il nemico più temibile dei pastori.
La preoccupazione per questo animale era enorme e la paura del lupo diventava sempre più concreta e tangibile man mano che questi diventava una minaccia per greggi e esseri umani.
Durante il medioevo, periodo storico durante il quale superstizione e folklore hanno avuto una rilevante importanza culturale, l’esasperazione delle cronache e dei racconti del tempo hanno portato ad una vera e propria demonizzazione di questo animale, quale catalizzatore delle paure ancestrali di molti popoli, tanto da descriverlo come
infido servitore del demonio, un’ombra malvagia da sconfiggere e cacciare con tutte le forze.
Simbolo della natura selvaggia non addomesticata, quella del lupo è stata una figura che ha sempre terrorizzato gli esseri umani, tanto che numerose testimonianze sono state riportate nelle antiche cronache e soprattutto nell’ambito del folklore locale.
Ecco che prese corpo la figura del licantropo, anche se a dire il vero la trasformazione dell’uomo in lupo affonda le proprie radici in epoche più antiche del medioevo, ma con una connotazione diversa. Per tutta una serie di motivazioni dovute a diversi aspetti della simbologia, la licantropia è stata assunta a espressione del decadimento umano allo stato della bestia, selvaggia, irrazionale e indomabile, con tutti i risvolti antropologici e psicologici che ancora oggi possono fornirci molte informazioni sul rapporto uomo-lupo.
Dagli studi più antichi emerge che la licantropia fonderebbe le proprie radici nella mitologia greca, fino ad arrivare al folklore della tradizione nordica. Ad esempio, nelle saghe scandinave si trovano molti elementi che richiamano alla concezione moderna della trasformazione dell’uomo in lupo. In alcuni casi questi aspetti assumo un’enfasi che si riallaccia alla sfera dello sciamanesimo e alle sue incursioni nella psiche, correlate proprio al concetto di “viaggio sciamanico”.
A contribuire alla figura nefasta del lupo, che ebbe come risultato un processo di demonizzazione di cui oggi è ancora in parte vittima, ebbe un ruolo rilevante il fenomeno della rabbia, soprattutto quando l’eziologia di questa patologia non era nota in ambiente medico o scientifico. Senza dubbio, alcuni sintomi specifici prodotti dal virus devono aver contribuito ad alimentare ulteriormente le credenze popolari sulla malvagità del lupo che, nel caso abbia contratto il virus della rabbia, ovviamente assume un comportamento alterato, fuori dal normale.
Anche se ben presto si comprese che la causa della malattia fosse da imputare al morso o al contatto con la saliva di un animale infetto, per molto tempo si cercò l’origine in fenomeni di natura sovrannaturale, associando la rabbia a elementi che trovavano terreno fertile nelle elucubrazioni legate al concetto di licantropia.
Licantropia è un termine che deriva dall’unione di due parole greche,
lýkos (lupo) e ànthropos (uomo) e indica la trasformazione di un essere umano in lupo.
Oltre alla classica espressione uomo lupo, un altro sinonimo è lupo mannaro, ma questo vocabolo a volte è usato per indicare un lupo particolarmente famelico, di grandi dimensioni, sovrannaturale, ma non necessariamente risultato della trasformazione da uomo in animale.
Dal punto di vista antropologico il concetto di metamorfosi si inserisce profondamente nella dimensione sovrannaturale e che alimenta tutta una serie di simbolismi che nel tempo sono stati codificati nel linguaggio del sacro e del mito. Emblematicamente, miti e divinità del passato sono stati spesso contrassegnati dall’ibridazione uomo-animale o, comunque, dalla capacità di passare da una condizione all’altra.
Nelle credenze e nel folklore della cultura occidentale, la metamorfosi legata alla licantropia è generalmente legata ad alcuni specifici topoi come la punizione divina, ferita prodotta da un attacco di un altro licantropo, nascita da un’unione tra consanguinei, figli illegittimi o altre cause correlate al comportamento del soggetto destinato a diventare licantropo. Solitamente, quindi, l’origine della licantropia è sempre collegata a fattori riconducibili all’infrazione di regole di comportamento etico, il peccato o la maledizione.
Credenze e folklore, quindi, poggiano su un corpus vasto e diversificato che abbraccia diversi ambiti culturali, sfumando dalla sfera razionale e reale verso un ambito simbolico, in cui trova maggiori aderenze.
Un esempio significativo è dato dalla figura della Luna e in particolar modo il suo rapporto con la vita quotidiana degli esseri umani. Ecco che l’astro esercita la sua influenza su più livelli, sia sul piano fisico, sia su quello psichico.
Nelle superstizioni popolari la Luna ha mantenuto inalterato il proprio simbolismo, creando spesso legami con l’universo del mistero e dell’occulto. Tali credenze erano sorrette dalla radicata e diffusa convinzione che la Luna fosse legata alle condizioni di salute degli uomini e ai moti della natura.
In alcuni casi, ancora oggi, la relazione tra le fasi lunari e le varie espressioni della fisiologia umana non viene considerata solo un’ipotesi folkloristica, ma è indicata come una delle possibili cause di crisi psicotiche (isteria, epilessia, paranoia) e la relativa alterazione dell’equilibrio mentale di alcuni individui. Si tratta di un punto di vista molto dibattuto dalla scienza, tra medicina e neurologia, tanto che alcuni studi sul tema pongono l’attenzione sul fatto che i raggi lunari potrebbero in qualche modo influenzare alcuni neurormoni, come la melatonina, contribuendo significativamente sul comportamento. Si tratta, comunque, di ipotesi sostanzialmente confutabili, in quanto non esistono né prove scientifiche né dati statistici verificabili, in grado di documentare oggettivamente l’influenza della Luna sul comportamento umano.
Per la psichiatria moderna, la licantropia clinica costituisce un fenomeno noto, seppur raro, che induce chi ne è affetto a credere di potersi trasformare in lupo, ma anche in altro animale.
Nelle forme più gravi di questa sindrome, il soggetto può essere indotto a cibarsi di carne cruda, manifestando anche atteggiamento antropomorfi. Sotto il profilo clinico, la licantropia è una delle patologie che fanno parte della teriantropia, in passato riconosciuta come manifestazione su una base isterica, mentre oggi la sua esistenza è addirittura messa in discussione da una percentuale sempre più rilevante di scienziati.
Si tratta comunque di una patologia psichiatrica che potrebbe essere associata a forme di sdoppiamento della personalità, in quanto il delirio zooantropico, quello con caratteristiche più simili alla licantropia, può essere riconducibile ai sintomi della schizofrenia.
Non esistendo, di fatto, una classificazione nosografica specifica in cui inquadrare questa patologia, solitamente la licantropia viene ritenuta una forma di delirio ascrivibile a diverse forme di disturbo psichico.